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Dopo quasi trent’anni posso tornare indietro a “rivedere” mio padre

di Katia Mariconti

 

Da circa due mesi mio padre era tornato da un esilio forzato. Sembravamo una famiglia felice, come se nulla fosse successo.

Quella mattina di Natale, ci siamo messi in marcia per andare dai nonni a Mirandola, città natale del famoso Pico della Mirandola. A pensarci bene, era nato lo stesso giorno e mese di mio padre e morì molto giovane.  I nonni ci aspettavano per pranzo. Nonno Cesare, padre di mia madre, si era risposato con Mafalda, nonna Mafalda come la chiamavo, anche se non è mai stata interessata al titolo.

L’auto di papà era nuova di pacca, comprata con un finanziamento, accessoriata e di un colore blu acceso. Mi piaceva molto.

L’autostrada era vuota, circolavano poche auto, un silenzio strano, forse era il mio silenzio, forse avrei voluto restare a casa, non saprei. L’atmosfera era un po’ pesante, nessuno di noi parlava, addirittura Vittoria dormiva con la testa sopra le mie ginocchia.

La nostra prima sosta in autogrill  fu l’ultima, per un caffè, una sgranchita alle gambe. Ricordo il verde intorno, le fronde degli alberi che seguivano il vento, l’aria fresca inebriante anche se il freddo si faceva sentire.

Mi fermai alla macchinetta stampa biglietti da visita. Provai a coinvolgere mio padre, mi piaceva l’idea di aver un mio biglietto da visita, anche se non ne avevo bisogno. Gli dissi che poteva essergli utile per il suo nuovo studio di pittura. Parlammo ma fu inutile, disse che era troppo presto.

Ritornati alla macchina, ripresi l’argomento: mi piaceva parlare del suo studio di pittura, ricordo il giorno dell’inaugurazione. In realtà mi sarebbe piaciuto parlare tanto tanto con mio padre.

Mio padre ci disse di mettere la cintura di sicurezza, abbozzai che non  era necessario per i passeggeri dietro ma la misi ugualmente, Vittoria riprese a dormire.

Eravamo in corsia di sorpasso vedevo il contachilometri segnare 130.

Un istante dopo, sentii la voce di mio padre forzarsi e in quel momento alzai gli occhi e vidi un’auto venirci incontro, sentii il suono delle urla, un suono che non dimenticherò mai,  mio padre tentò di sterzare a destra ma fu inutile.

Non so quanto tempo passò ma aprii gli occhi, i vetri in bocca mi impedivano di respirare e mi facevano male, il fumo invadeva l’abitacolo, non mi rendevo conto di cosa fosse successo.

Cercai di chiamare i miei genitori e mia sorella, nessuno mi rispose.

I ricordi sono solo delle immagini veloci, come foto istantanee. Estratta dalla macchina dopo qualche istante, senza ancora rendermi conto di cosa fosse successo, sentivo i dolori pervadere il mio corpo, dolori allucinanti, non respiravo.

Ho aperto gli occhi ed ero in un letto di ospedale, girai la testa e a fianco a me vidi mia mamma, dormiva. Un piccolo movimento la svegliò, ci guardammo,  senza parlare; lentamente  girai ancora la testa e vidi un nostro amico, Cesare. Era seduto di fronte e ci guardava, mi disse che mia sorella era in coma.

Non disse null’altro e capii che mio padre era morto.

Il suono delle urla: un suono da cancellare, un suono insopportabile da rimuovere.Ci vuole tempo per riaprire le orecchie  quando la realtà è paura e dolore, perdita inconsolabile, cambiamento traumatico.

Grazie Katia, con queste righe ci dici che viene il momento in cui ci si può ricongiungere al passato e trasformarlo in patrimonio di esperienza,  in dolore possibile, e sbloccare l’angoscia imprigionata dentro di sé.

Per te, scrivere sembra un far ri-esistere chi non si poteva pensare di perdere e che invece è scomparso, nel vuoto, nella colpa, nella paura, all’improvviso, senza avere neppure la consolazione di un saluto. Ricordando, ripensando, l’ hai salutato, gli hai detto il tuo bene e puoi andare avanti ad amare.