Il lavoro più bello del mondo!
di Stefano Galbiati
“Ma tu, che lavoro fai?” – “Lavoro come educatore in una struttura che si occupa di malati in stato vegetativo, minime coscienze e malati di SLA” – “Caspita, ma come fai? che coraggio che hai!”
Queste semplici battute sono divenute ridondanti quando mi presento a qualcuno che non conosco. Peccato non poter immortalare le reazioni e le espressioni che mi si presentano. Si potrebbe costruire uno spassoso book fotografico! Bisognerebbe poi mostrarlo agli ideatori di “Whatsapp”, così verrebbero triplicate le faccine del programma di comunicazione più famoso del mondo. Effettivamente, qualche domanda sono costretto a pormela: faccio un lavoro pericoloso? Fisicamente insostenibile? Usurante? Noioso? Dopo qualche attimo di riflessione, la risposta che mi do è sempre la stessa: No, niente di tutto ciò, semplicemente faccio il lavoro più bello del mondo!
Mio padre ha fatto di tutto per convincermi ad introdurmi nel suo lavoro. Era un dirigente d’azienda tessile, poi divenuto rappresentante. Viaggiava per il mondo e mi ha sempre raccontato gli stimoli positivi del suo impiego. Non avrei dovuto nemmeno fare l’università per seguirlo, mi sarebbe bastato affinare la mia conoscenza di inglese e francese. Eppure, l’idea di entrare nel mondo del commercio, mi rattristava. E’ vero, quanti stimoli girando il mondo ma… le relazioni? Che tipo di relazioni hai con la gente? Che viaggio compi nei “mondi” interiori dei “clienti”?
Fin da piccolo ho sempre avuto “fame” di relazioni. Forse perché stando in relazione comprendi maggiormente te stesso. E’ vero quel che si dice: sono gli altri che ti permettono di avere un immagine di te. Ancora oggi ho un gran bisogno di scendere nell’abisso della mia anima e scavare, cercare, andare a fondo. Ha senso la vita se stai sempre in superficie? Il viaggio, quello più stimolante, è davvero quello che ti porta dentro di te non fuori. Ecco perché ho scelto di diventare educatore.
Ma veniamo allo stupore della gente, quando gli racconti che lavori a contatto con la sofferenza. Oggi comprendo molto di più questa reazione. La nostra società ha deciso di ghettizzare le molteplici situazioni di sofferenza in ospedali, cliniche, istituti. Difficilmente la morte ci coglie all’interno delle mura domestiche e parlarne è tabù. Come se facessimo finta che l’unica certezza che abbiamo in questo mondo, la morte appunto, sia qualcosa che non riguarda tutti.
La sofferenza e la morte fanno paura, ma se le guardi negli occhi ne avrai un po’ di meno. Ne ho avuto il terrore anch’io da ragazzo. Ma oggi, la cosa che mi fa davvero paura è la superficialità di una vita sterile. Quando mi dicono che ho coraggio a fare il mio lavoro rispondo sempre: “Sei tu che hai coraggio a stare dal lunedì al venerdì in ufficio!”. Trentotto ore davanti a un PC, a curare numeri, procedure, cavilli burocratici. Alla sera cosa ti rimane? Cosa ti porti a casa?
E’ vero, c’è una cosa negativa nel mio lavoro ed è una cosa importante. Ho perso la spensieratezza. Tutti i giorni incontro persone che mi raccontano che avevano una vita normale, poi “un giorno” accadde qualcosa di drammaticamente stravolgente. Da quando lavoro qui in RSD, so che ogni giorno può essere davvero l’ultimo. E perché io dovrei essere più fortunato degli altri? Quando mi immagino il futuro spesso mi fermo a stasera, massimo a domani. Di più faccio fatica ad immaginarlo. Ecco, questo può essere pesante ma dipende sempre come si guarda la medaglia. Proprio perché ho questa consapevolezza, oggi ho una voglia pazzesca di vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo! “Chi ha tempo, non aspetti tempo” dice il proverbio.
Le reazioni più eclatanti sono quando descrivo la SLA a chi mi chiede cosa sia. Generalmente il volto del mio interlocutore si corruccia, la bocca si spalanca e le mani pressano le guance: ecco l’urlo di Munch!
Non mi sento più forte degli altri. La prima volta che incontrai un malato di SLA rimasi anch’io scioccato. Davvero esiste una malattia che arriva a paralizzarti completamente? Mi ricordo che il pensiero mi tolse il fiato e compromisi le mie ferie estive perché non riuscivo a togliere l’angoscia dentro di me.
Oggi sono proprio le relazioni con i malati di SLA che rappresentano l’aspetto più bello del mio lavoro. E’ grazie a molti di loro che ho scoperto un segreto incredibile! Ho sempre cercato la felicità fuori da me senza mai trovarla. Ho sempre pensato che avere una casa, un lavoro, una moto, poter viaggiare, stare bene, MUOVERMI fossero condizioni necessarie per essere felici. Mi sbagliavo ed ero più inquieto di oggi. Loro mi hanno insegnato che la felicità è un viaggio dentro di noi, non fuori. Persino la malattia più “Stronza” del mondo può non rubartela se conosci questo segreto!
L’avrei mai scoperto non facendo questo lavoro?
Ho sempre saputo di trovarmi in un mondo un po’ paradossale, dove spesso ti viene detto che è meglio vivere nelle tenebre che nella luce… Poco più che ventenne vidi una scena di un film che mi fece riflettere. Il titolo è “Francesco” e narra la vita di San Francesco interpretato da Raoul Bova. Nelle prime battute si vedono san Francesco e santa Chiara da bambini che giocano stando a testa in giù. Francesco dice a Chiara: “Hai visto? Te l’avevo detto! E’ il Cielo che regge la terra!”
“Ma tu, che lavoro fai?” – “Lavoro come educatore in una struttura che si occupa di malati in stato vegetativo, minime coscienze e malati di SLA” – “Caspita, ma come fai? che coraggio che hai!” – “Ma no, non è così! prova a metterti a testa in giù e osserva bene. Hai visto? Te l’avevo detto! Essere educatore è il mestiere più bello del mondo!”
Seguiamo il consiglio di Stefano, proviamo davvero a metterci a testa in giù e riguardiamo bene la realtà, chissà quante belle sorprese ci aspettano!